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Nei piani della Commissione Ue  la quota di energia da fonti rinnovabili dovrà raggiungere il 40% entro il 2030. Ma in alcuni casi, in Italia, siamo ancora alle fasi di sperimentazione.    

La situazione

Tra le fonti rinnovabili, l’energia idroelettrica è indubbiamente quella che ha le origini più antiche e la Cina ne è il principale produttore a livello mondiale, seguito da Brasile, Canada, Usa e Russia. Ma è importante anche in alcuni Paesi europei come Svizzera, Austria, Islanda, Svezia e Norvegia. Basti dire che in quest’ultima nazione il 99% dell’energia prodotta è di origine idroelettrica.
Anche l’Italia si difende bene, tanto che quella idroelettrica è la principale energia alternativa ai combustibili fossili, producendo oltre il 40% delle energie rinnovabili necessarie al Paese. Concentrata in Lombardia, Piemonte e Trentino, con i suoi 4.300 impianti e 15 mila addetti, produce circa 46 TWh l’anno, arrivando a coprire il 41% dell’energia elettrica complessiva. Numeri di tutto rispetto che però sono minati da due fattori: l’invecchiamento degli impianti (la maggior parte dei quali risale a 70 anni fa) e le conseguenze del cambiamento climatico. Sul primo punto gli esperti non hanno dubbi: per continuare a essere la prima fonte di energia alternativa rinnovare gli impianti è una strada obbligata. Il rapporto “Il contributo economico e ambientale dell’idroelettrico italiano”, redatto da Althesys società di informatica con sede a Padova, per Utilitalia (Federazione che unisce le principali aziende speciali operanti nei servizi pubblici dell’acqua, ambiente, energia elettrica e gas), parla chiaro: con gli opportuni interventi di rinnovamento e di manutenzione, l’attuale parco idroelettrico nazionale potrebbe aumentare la sua potenza di quasi 6.000 MW entro il 2030, guadagnando 4,4 Twh di produzione elettrica rinnovabile in un decennio, senza nessun ulteriore impatto ambientale. Una strada da percorrere obbligatoriamente anche perché gli investimenti nell’idroelettrico sono in crescita in tutto il mondo: nel 2022, complessivamente, hanno superato i 36 miliardi di dollari. Dimostrando che il settore, pur essendo maturo, resta comunque dinamico anche grazie alla spinta della transizione energetica in corso.

Un potenziale ancora inespresso

Indirizzati in prevalenza all’autoconsumo per piccole utenze indipendenti e isolate sono gli impianti basati sulla tecnologia del pico e micro-idroelettrico, per potenze inferiori ai 5kW generate sfruttando piccoli corsi irrigui e condutture preesistenti ma senza modificarne l’originaria destinazione d’uso. Usano turbine standard di mercato e per funzionare hanno bisogno di un salto d’acqua da pochi metri e di un flusso costante benché non necessariamente imponente (anche da mezzo litro al secondo). L’installazione di questo tipo di impianti può essere favorita da incentivi economici istituzionali e richiede un investimento iniziale ragionevolmente contenuto, nell’ordine dei 1.500-3.000 euro per kilowatt installato. Gli ostacoli coincidono da un lato con la complicatezza delle opere civili necessarie – per esempio quelle di sbarramento – che rappresentano sino al 50% delle spese previste; dall’altro con le difficoltà dell’iter procedurale e delle inevitabili pratiche burocratiche autorizzative.

La sperimentazione è in corso

Di recente e sotto la guida Shih-Chieh Kao un team di ricercatori dello Oak Ridge Natonal Laboratory, nello Stato americano del Tennessee, ha indagato le potenzialità di una soluzione innovativa. L’idea è di integrare alle tubature esistenti dei piccoli generatori di energia elettrica o meglio di ampliarne la rete. Negli USA questa tecnologia già oggi dà modo di generare un totale di 530 megawatt, mentre secondo gli studiosi se ne potrebbero ottenere almeno 1,4 gigawatt: un quantitativo sufficiente perciò a soddisfare il fabbisogno di circa un milione di abitazioni. La sperimentazione sulle piccole taglie ha alle spalle una storia relativamente lunga. Già nel 2016 fra i finalisti dello European Inventor Award si piazzò il ceco Miroslav Sedlácek, ideatore di una tecnologia che per produrre energia usa una turbina senza pale e azionata dal solo movimento rotatorio dei vortici d’acqua. In questo modo si ridurrebbero i requisiti impiantistici: il flusso d’acqua non deve essere particolarmente rapido né ingente e il salto necessario può essere alto solo poche decine di centimetri. È stato calcolato che la rolling fluid turbine, questo il nome del sistema, possa creare sino a 10 kilowattora di energia al giorno, garantendo altresì un’efficienza superiore al 50%.

Col vento a favore, anche a casa

Lo scorso anno ha visto inoltre la luce in Italia un particolare modello di turbina eolica ad asse verticale installabile anche sui balconi di casa. Frutto dell’ingegno di Piergiorgio e Rocco Palamara dell’associazione Nuove Energie per il Domani – e brevettata a livello internazionale e nazionale- sarebbe «in grado di garantire la produzione di potenza a partire da velocità del vento molto basse» e di coprire i consumi di una famiglia per circa un terzo. Secondo gli inventori, «le condizioni ideali di funzionamento in cui la turbina è in grado di offrire la massima efficienza corrispondono a basse velocità di rotazione del rotore (e quindi a un funzionamento poco rumoroso), con possibilità di iniziare a produrre energia elettrica anche a lievi intensità di vento. Come è stato riportato, è in corso la ricerca di partner industriali interessati allo sviluppo dell’iniziativa su scala più vasta.

L’energia che viene dalle onde

C’è poi un altro tipo di energia che viene dall’acqua ed è quella generata dal moto delle onde marine ed ha tutto il potenziale per diventare la più grande fonte di energia. Secondo il Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC), la produzione annuale potenziale a livello mondiale si attesterebbe attorno ai 29.500 TWh. Il che significa quasi dieci volte il consumo annuale di elettricità dell’Europa, pari a 3.000 TWh. Progetti pilota in grado di sfruttare questa importante fonte di energia elettrica sono in corso in tutto il mondo e i Paesi che stanno investendo maggiormente in questa direzione sono Stati Uniti, Canada e Australia. Interessanti studi sono però in corso anche lungo la costa atlantica dell’Europa dove onde gigantesche si schiantano sulle coste di Scozia, Irlanda, Regno Unito, Francia, Spagna e Portogallo. L’energia che deriva dal moto ondoso offre un’efficienza potenziale maggiore di quella solare, ma sfruttarla non è semplice. Diverse sono le problematiche da affrontare come la corrosione dell’attrezzatura sommersa e il corretto ancoraggio delle attrezzature sul fondale marino. Il meccanismo di funzionamento è simile a quello della produzione di energia eolica. L’unica differenza sta nel fatto che le turbine vengono mosse dalla forza cinetica dell’acqua anziché dal vento. Le tecnologie utilizzate per questo tipo di fonte rinnovabile sono più d’una con un unico comune denominatore: catturare il movimento delle onde e utilizzarlo per creare energia elettrica, la cui quantità dipende dalla velocità, dall’altezza e dalla frequenza dell’onda, oltre che dalla densità dell’acqua.

Vantaggi

I vantaggi di questo tipo di fonte rinnovabile sono due: non occupare ulteriore suolo e maggiore affidabilità rispetto ad altri fonti rinnovabili. Le maree e le correnti oceaniche, infatti, sono prevedibili e sono in grado di garantire energia costante e continua 24 ore su 24, a differenza di quella solare o eolica.

In Scozia l’impianto più grande

Tra i progetti in corso il più importante si trova in Scozia, dove OceanEnergy sta perfezionando il più potente impianto per la conversione di energia dalle onde, che una volta a regime sarà in grado di rendere indipendente l’Europa dal punto di vista energetico. Il progetto, che durerà 4 anni, è stato battezzato WEDUSEA ed è cofinanziato dal programma Horizon Europe dell’Unione Europea e da Innovative UK con 19,6 milioni di euro. Alla sue realizzazione collaboreranno università e aziende private di diversi paesi del Vecchio continente.

Gli impianti in Italia

Anche in Italia ci sono impianti attivi. Il primo è stato realizzato da 40 South Energy, società con sede a Londra e a Marina di Pisa. Installato a 200 metri dalla costa e a circa sette metri di profondità, l’impianto è collegato alla terra con cavi completamente interrati e ha una potenza di 50kW.
C’è poi un altro impianto che utilizza il sistema ISWEC (Inertial Sea Wave Energy Converte), progettato dal Politecnico di Torino in collaborazione con Eni, ideale per fornire energia elettrica a isole minori non connesse alla rete elettrica principale, comunità costiere e infrastrutture offshore, come piattaforme Oil&Gas. Il primo impianto pilota è stato installato a Ravenna nel marzo del 2019, collegato alla piattaforma PC80 di Eni e integrato con un impianto fotovoltaico. L’impianto è stato dismesso nel settembre 2022, al termine della campagna sperimentale, e nel febbraio 2023 la multinazionale italiana ha completato l’installazione del primo dispositivo ISWEC nel mar Mediterraneo, a 800 metri dalla costa di Pantelleria. Sul sito di Eni si legge: «Il modello ISWEC è uno scafo in acciaio, di dimensioni 8x15m che ospita il sistema di conversione dell’energia, costituito da due unità giroscopiche di più di 2 m di diametro ciascuna. Il dispositivo è mantenuto in posizione, in un fondale di 35 m, da un ormeggio di tipo auto-allineante in base alle condizioni meteo-marine, composto da tre linee di ormeggio e uno swivel (giunto rotante) mentre l’energia elettrica prodotta è portata a terra mediante un cavo elettrico sottomarino. Il dispositivo potrà raggiungere i 260 kW di picco di produzione di energia da moto ondoso e avrà anche lo scopo di acquisire dati per ottimizzare la progettazione di nuovi dispositivi».

Biomasse, un percorso a ostacoli

Tra le energie rinnovabili ci sono poi le biomasse solide, anche se finora poco sfruttate. Questo materiale, chiamato anche petrolio verde, è costituito da un insieme di organismi che possono essere sia di origine vegetale che animale, e che formano un agglomerato durante il loro ciclo biologico. Oggi in Italia solo una piccola parte di energia è ricavata dalle biomasse, ma è sempre maggiore l’interesse dell’Unione Europea, che da diversi anni stanzia incentivi per l’utilizzo di questa importante risorsa. Attualmente esistono centrali di biomasse solide solo di tipo tradizionale, con un forno di combustione e una caldaia che alimenta una turbina a vapore accoppiata a un generatore. Un settore che in Italia ha un giro d’affari di 650 milioni di euro e dà lavoro a più di  5.000 persone, eppure continua a rimanere ai margini, anche se qualche spiraglio di luce inizia a vedersi all’orizzonte grazie alle nuove linee guida della direttiva europea Red III. «Siamo soddisfatti per i miglioramenti introdotti nel nuovo testo della direttiva Red III: grazie alla programmabilità, le biomasse solide possono dare un contributo importante alla produzione energetica da rinnovabili e all’indipendenza del nostro Paese dall’estero», ha detto ai media Antonio Di Cosimo,  presidente dell‘Associazione Energia da Biomasse Solide (Ebs), che raggruppa i principali produttori di energia elettrica da biomasse solide: 15 operatori e 18 impianti di taglia superiore ai 5 MW su tutto il territorio nazionale. La capacità complessivamente installata, di circa 300 MWe, genera una produzione elettrica annua superiore ai 2.100 GWh, impiegando circa 2,5 milioni di tonnellate di biomassa solida, di cui più del 90% prodotta in Italia. Ma la strada è ancora lunga e piena di ostacoli.

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